R.A.4 – “Dare un futuro all’Europa sociale”

{Il Congresso approva a rinviare, per la discussione, questa risoluzione al Comitato
esecutivo entrante.}

{{L’ottavo congresso della FSESP dispone: Dare un futuro all’Europa sociale - Requisiti per un
modello economico e sociale alternativo per l’Unione europea.}}

1. Priorità alla giustizia sociale nell’Unione Europea
I cittadini dell’UE vivono il più lungo periodo di pace della storia europea, che dura da quasi tre
generazioni. Dare questo per scontato vuol dire non riconoscere la funzione pacificatrice del
processo di integrazione europea, che ha portato la pace fin dal suo inizio, all’indomani della
Seconda guerra mondiale.

E tuttavia la condizione attuale del progetto europeo suscita qualche preoccupazione. La pace è
ben più dell’assenza di guerra e di forza militare. Pace significa anche, all’interno, pace sociale,
che si concretizza nella giustizia sociale. Ebbene, su questo punto l’Europa presenta ancora
notevoli carenze, che tendono ad aggravarsi sempre più. L’evoluzione delle politiche
economiche, sociali, salariali e fiscali dell’UE provoca tensioni negli stati membri. È necessario
voltare le spalle all’attuale politica per non compromettere la pace in seno all’UE. L’Unione ha
urgente bisogno di un modello economico e sociale alternativo.

A partire dall’intensificazione del processo di integrazione, legato al mercato interno unico e
all’unione economica e monetaria, e dall’allargamento dell’Unione verso l’Europa centrale e
orientale, i cittadini di molti stati non considerano più l’UE come sinonimo di crescente
prosperità, di maggiori guadagni e migliori prospettive di lavoro. Al contrario, vedono nell’UE un
veicolo di ridistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, di inadempienze nei sistemi di
sicurezza sociale, di diminuzione di posti di lavoro e crescente disuguaglianza sociale. I cittadini
dell’Unione sperimentano gli effetti di profondi processi economico-sociali, quali:
-* Una forte diminuzione della percentuale di paghe e salari nel prodotto nazionale lordo
dell’UE-27, in particolare nell’Eurozona,
-* Un’ancora più evidente disuguaglianza nella distribuzione dei redditi tra ricchi e poveri in
tutta l’UE,
-* La formazione di un settore a debole salario con una percentuale crescente di lavoratori
che svolgono lavori atipici e privi di tutele sociali in tutta l’UE,
-* La riduzione delle prestazioni a favore dei disoccupati, soprattutto quelli di lunga durata,
a seguito di riforme liberiste del mercato del lavoro in quasi tutti gli stati dell’UE,
-* Il declino del Welfare State per quanto riguarda le pensioni di vecchiaia e l’assistenza
sanitaria dappertutto nell’Unione,
-* La ridistribuzione del carico fiscale a favore delle imprese e di chi percepisce alti redditi
in tutti gli stati membri,
-* La diminuzione dei posti di lavoro in aziende il cui ritorno di capitale allo stesso tempo è
aumentato fortemente.
Tale evoluzione si deve essenzialmente a un radicale cambiamento nel modello di politica
economica e sociale, avviato a livello europeo con la firma dell’Atto Unico Europeo del 1987 e
con l’introduzione del mercato unico europeo. Questi progetti hanno segnato il passaggio nell’UE
dal modello keynesiano al neoliberismo.

LA FSESP ritiene che sia politicamente urgente opporsi fermamente al modello economico e
sociale neoliberista, saldamente ancorato negli attuali trattati UE, con un modello alternativo
fondato su un’Europa sociale. Solamente così l’Europa potrà superare l’attuale profonda crisi di fiducia. L’UE deve lottare per una politica della piena occupazione, sostenendo il reddito,
superando le disuguaglianze sociali, difendendo lo stato sociale, abolendo condizioni di lavoro
socialmente non protette e ampliando i diritti dei lavoratori e la democrazia industriale. Solo se
riuscirà a realizzare questa trasformazione sociale l’UE potrà contare sul sostegno della
popolazione a lungo termine.

{{2. Revisione del modello economico dell’Unione europea}}

Con l’Atto unico europeo (1987) e il trattato di Maastricht (1993), la filosofia neoliberista è
divenuta l’ideologia dominante nel processo di unificazione europea. L’obiettivo che si poneva
l’Atto unico europeo (AUE) era la realizzazione di un mercato unico caratterizzato da quattro
fondamentali libertà, vale a dire la libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e
del capitale. Il Trattato di Maastricht ha sancito l’introduzione di un’unione economica e
monetaria. Nell’elaborazione di questi due progetti socio-economici prioritari, gli Stati dell’UE
hanno deliberatamente rinunciato alla contemporanea creazione di un’unione sociale e fiscale e
di un sistema europeo di contrattazione collettiva.

Pratiche di dumping sono strutturalmente programmate nella forma europea di unione
economica e monetaria, nella quale la moneta è di comune competenza, ed è quindi europea,
mentre le politiche salariali, sociali e fiscali rimangono espressamente nelle mani degli stati
membri. In un tale sistema, gli Stati nazionali si fanno concorrenza per gli investimenti di
capitali internazionali, sulla base dei costi salariali e sociali, e del livello di tassazione delle
imprese. L’Unione economica e monetaria europea ha messo in moto una generale competizione
nella riduzione dei salari e nello smantellamento dello stato sociale, nonché nella riduzione
della tassazione alle imprese.

Questa forma di competizione fra gli Stati può essere definita come un sistema di Stati
concorrenti. Ora, il sistema di Stati concorrenti rappresenta un vero e proprio motore per il
raggiungimento degli obiettivi del neoliberismo: lo Stato, e in particolare lo stato sociale, si può
limitare, i costi salariali e sociali, nonché le tasse delle imprese si possono ridurre e le forze del
mercato possono espandersi attraverso la deregolamentazione e la privatizzazione.

Inoltre, gli obiettivi macroeconomici del modello neoliberista trovano la loro realizzazione nella
forma europea di unione economica e monetaria. Il trattato di Maastricht impone alla Banca
Centrale Europea come obiettivo primario la lotta all’inflazione. Per di più, la politica
finanziaria basata sul trattato di Maastricht e sulle norme europee nell’ambito del cosiddetto
patto di crescita e stabilità, si centra essenzialmente sul consolidamento dei bilanci pubblici. I
margini di manovra per stabilizzare la tendenza economica , controllando entrate e uscite, vale
a dire attraverso la cosiddetta politica fiscale, sono di conseguenza fortemente ridotti. Poiché,
contrariamente al “piano Werner” dei primi anni 70, non esiste un governo economico europeo
nella variante dell’unione economica e monetaria di Maastricht, è pressoché impossibile
coordinare efficacemente le politiche fiscali degli stati europei dell’eurozona, e ancor meno
ottenere un coordinamento e un’adeguata combinazione delle politiche monetarie e fiscali
(“policy-mix”). Le debolezze di questa politica economica sono divenute evidenti nell’Eurozona,
soprattutto dopo lo scoppio della bolla della new economy del 2001. A differenza degli Stati
Uniti, la BCE e i governi dell’Eurozona non hanno lottato attivamente contro la stagnazione
economica del periodo 2001–2005 attraverso una politica anticiclica.

Nell’attuale crisi economica mondiale, che colpisce fortemente gli stati europei, la limitata
capacità di agire degli stati dell’Unione si sta palesando con particolare evidenza. Pur essendo
l’UE una zona economica strettamente interdipendente, nella quale gli stati nazionali sono
raramente nella posizione di attuare un’autonoma politica economica a breve termine, la
Commissione non ha la competenza di imporre all’Unione nel suo insieme un programma
anticiclico di cui vi sarebbe urgente bisogno. Invece, importanti attori nazionali – quali la Francia
e la Germania – si perdono in sterili litigi sulla portata e gli strumenti di un programma di incentivi senza che la Commissione abbia il diritto di esortare questi stati ad essere ragionevoli e
di imporre loro un programma europeo. A differenza degli Stati Uniti, l’UE ha soltanto limitate
possibilità di arginare la durata e l’entità della crisi economica attraverso un’azione rapida e
mirata.

Le seguenti richieste di riforma da parte della FSESP nascono dalla critica dell’attuale politica
economica dell’Unione:

1) Uguale impegno da parte della Banca Centrale Europea verso gli obiettivi di forte crescita
economica, di piena occupazione e di stabilità monetaria. I conflitti di interesse che spesso
nascono da tale impegno devono essere accettati; essi obbligano la BCE ad adottare una
politica monetaria flessibile e a coordinare la sua politica con la politica fiscale e salariale.

2) A breve e medio termine sarà opportuno coordinare le politiche nazionali a livello
dell’Unione, in modo da far sì che gli spazi d’azione della politica economica siano più
efficacemente utilizzati e da ottenere un adeguato coordinamento tra la politica monetaria
europea e quella fiscale. A tal fine, la competenza si potrebbe trasferire alla Commissione,
in stretta cooperazione con il Consiglio dei Ministri dell’Economia e delle Finanze (Ecofin), al
fine di fissare le linee generali della politica fiscale degli stati membri, d’accordo con le
rispettive configurazioni economiche (tendenza al consolidamento o all’espansione).

3) Tuttavia, la condizione previa ad una tale politica è che si provveda a una sostanziale
revisione del patto di stabilità e crescita (PSC), stipulato nel 1997, e rivelatosi troppo rigido.
Infatti, esso esige che tutti gli stati membri evitino “eccessivi deficit pubblici”, vale a dire
deficit superiori al 3% del prodotto interno lordo (PIL). Questa norma, contenuta anche nel
trattato di Maastricht, è stata ulteriormente irrigidita in occasione del vertice di Amsterdam
del 1997. Anche dopo l’ultima riforma del 2006, il PSC continua ad opporsi al bisogno di una
politica fiscale anticiclica. In una situazione di crisi, in cui il debito pubblico cresce, gli stati
dell’Unione devono poter stimolare la domanda in modo da colmare i divari che nascono sul
mercato. A tal fine si devono accettare i deficit causati dalla situazione economica. Nei
periodi di forte crescita, il maggior gettito fiscale deve essere utilizzato anche per ridurre i
disavanzi di bilancio. Il limite di nuovi debiti non deve tuttavia essere un obiettivo da
perseguire in modo dogmatico durante le fasi di crescita, perché il finanziamento di futuri
investimenti mediante indebitamento, ad esempio nel settore dell’istruzione, può essere un
compito utile dello Stato.

4) Si deve porre fine alla politica del dumping fiscale stabilendo una base comune di calcolo
della tassazione per le imprese e livelli europei di tassazione minima del reddito e delle
società, nonché l’armonizzazione delle disposizioni sulla base imponibile.

5) A lungo termine, tuttavia, bisognerà considerare di trasferire ulteriormente all’ambito
europeo il potere decisionale in materia di politica economica e anticiclica. La Francia lo
reclama già da diverse decine di anni, sostenendo il concetto di un governo economico
europeo. L’obiettivo sarebbe stabilire un’istituzione per la politica fiscale, di pari livello e
responsabilità della BCE, al fine di attribuire uguale importanza alla politica monetaria e a
quella fiscale e di attuare una politica economica e anticiclica europea efficace. In linea di
principio tale istanza va sostenuta. La politica fiscale europea deve essere meglio coordinata
a livello europeo, soprattutto nell’eurozona. Tuttavia, il coordinamento politico non è un
fine in sé, ma deve essere usato per garantire la crescita, l’occupazione e la conversione
ecologica. Un governo economico europeo, responsabile di attuare una politica economica
globale, assicurerebbe una crescita qualitativa. Dovrebbe altresì assumere la responsabilità
di compiti comunitari quali la costruzione di un’infrastruttura transnazionale efficace. I suoi
poteri complementari in materia fiscale e di finanziamento sono tali da poter finanziare tali
compiti. Una politica economica europea degna di questo nome dipende dalla sua autonomia
finanziaria.

6) La dotazione finanziaria deve essere nuovamente ripartita al più tardi nel prossimo periodo
di programmazione (a partire dal 2014):
-* I punti focali del bilancio devono essere la crescita, l’occupazione e le questioni sociali.
Al fine di valorizzare il settore sociale, occorre modernizzare o riorganizzare il già
esistente Fondo sociale europeo (FSE).
-* Quest’ultimo dovrebbe poter agire in modo indipendente al di fuori della politica
strutturale ed essere rafforzato finanziariamente. Il Fondo non dovrebbe essere a
disposizione soprattutto delle regioni economicamente svantaggiate – com’è stato fino
ad oggi -, bensì di tutti coloro che hanno bisogno di un sostegno per combattere i
problemi del mercato del lavoro (per esempio, un elevato tasso di disoccupazione, una
bassa quota di donne occupate, un’alta dispersione scolastica, una ridotta percentuale di
formazione complementare): in altre parole per raggiungere gli obiettivi definiti
nell’ambio dell’attuale processo di Lisbona.

{{3) Coordinare a livello europeo la politica sociale}}

Nel contesto di una modificata ideologia sociale e a motivo di diversi fattori, quali la
disoccupazione massiva, i deficit di bilancio e i cambiamenti demografici, gli stati sociali europei
hanno subito anch’essi una forte pressione, già dai primi anni ’90. Secondo la filosofia
dell’offerta, si incentiva il rendimento riducendo l’intervento dello Stato, in particolare dello
stato sociale, stimolando così le forze di crescita. Come risultato, in tutti i paesi europei sono
state realizzate riforme dei sistemi sanitari, pensionistici e del mercato del lavoro, che hanno
portato ad una notevole riduzione delle prestazioni sociali per i cittadini. Nei sistemi sanitari la
lista delle prestazioni è stata ridotta e, allo stesso tempo, sono state aumentate le quote di
pagamenti complementari e i contributi a carico dei pazienti. Nei sistemi pensionistici si sono
ristretti i criteri di eleggibilità e le formule pensionistiche sono state modificate. Di
conseguenza, i livelli relativi di pensione e le entrate sostitutive sono diminuiti in modo
significativo: si tratta di un processo destinato a subire una forte accelerazione nei prossimi
decenni, come conseguenza delle riforme pensionistiche già stabilite. Anche per quanto riguarda
le prestazioni di disoccupazione, sono stati ridotti i periodi di eleggibilità e i tassi di entrate
sostitutive. I tagli più considerevoli hanno colpito i disoccupati di lunga durata.

Le spirali discendenti delle prestazioni sociali sono aggravate dal sistema intra-europeo degli
stati concorrenti. Si ritiene che ridurre le spese sociali - che in media in Europa ammontano al
30% del prodotto interno lordo – possa promuovere la concorrenza e rilanciare la competitività
internazionale. Negli anni ’70 e ’80, le spese sociali aumentavano più velocemente del prodotto
interno. Di conseguenza, gli indici di prestazioni sociali - che misurano il rapporto tra il totale
delle spese sociali e la totalità delle entrate di uno stato - erano aumentati dappertutto. Più gli
Stati erano ricchi, più i loro indici di prestazioni sociali erano elevati e tale rapporto era molto
alto in termini statistici (80% di coefficiente di determinazione).

A partire dagli anni ’90, tuttavia, tale indice si sta abbassando in tutta Europa. Stati europei con
un livello molto alto di prestazioni sociali, come la Svezia, la Danimarca, la Finlandia e i Paesi
Bassi, hanno realizzato forti tagli allo stato sociale. In alcuni gli indici di prestazioni sociali sono
diminuiti fortemente, ma in Scandinavia restano ancora nettamente superiori alla media
dell’Europa occidentale. Le economie in ripresa, come quelle dell’Irlanda e della Spagna, hanno
sganciato lo stato sociale dalla crescita economica e hanno ridotto fortemente i loro indici. Un
fenomeno analogo si osserva negli stati dell’Europa centrale e orientale, soprattutto nei tre
paesi baltici, in Slovacchia e Polonia. Se gli stati sganciano le loro spese sociali dalla crescita
economica, e le riducono, al fine di ottenere dei vantaggi in termini di concorrenza intraeuropea,
ebbene, si può parlare di politica di dumping sociale. Una tale politica presenta
elevati rischi di contagio. Si può dunque affermare che, in assenza di un coordinamento delle politiche all’interno dell’arena europea, il dumping sociale continuerà a diffondersi anche
nell’ambito dello stato sociale.

In un nuovo modello economico e sociale europeo, la logica del sistema degli stati tra loro
concorrenti, dovrebbe essere contrastata, anche in questo campo politico, attraverso una
politica di ri-regolamentazione a livello europeo. Pertanto, la FSESP invita a creare un patto di
stabilità sociale per gli stati sociali europei, nel quale si stabilisca che la dimensione del welfare
state sia legata al livello di sviluppo economico dei rispettivi paesi. Nell’UE vi sono quattro
gruppi di paesi in base al loro reddito pro capite. Per ciascun gruppo, bisognerebbe stabilire una
fascia di quote di prestazioni sociali. Il gruppo degli stati più ricchi avrebbe una fascia più alta
del gruppo dei più poveri. Gli Stati con una ripresa economica si sposterebbero da una fascia più
bassa ad una superiore.

Concordando queste fasce, si otterrebbe quanto segue:
-* Si metterebbe fine alla politica di dumping sociale. Pertanto, paesi singoli non avrebbero
più la possibilità di procurarsi vantaggi concorrenziali attraverso indici di prestazioni
sociali inferiori alla media, poiché tali indici sarebbero misurati in base alle loro entrate.
-* Le economie nazionali meno sviluppate non sarebbero danneggiate da questa forma di
regolamentazione della politica sociale. Esse sarebbero tenute a versare soltanto quel
livello di prestazioni sociali che si possono “permettere” in funzione del loro reddito
nazionale.
-* Nel corso del processo di ripresa economica dei paesi meno sviluppati, gli indici delle
prestazioni sociali nell’UE dovrebbero convergere; le spese in prestazioni di vecchiaia,
malattia, inabilità al lavoro e disoccupazione sarebbero correlate non solo in termini
relativi, ma anche in termini assoluti. Le fasce di prestazioni per i gruppi a basso e
medio reddito aumenterebbero.
-* Inizialmente la regolamentazione quantitativa della politica sociale si limiterebbe ad un
minimo, a livello dell’UE; non sarebbe prevista alcuna ridistribuzione del reddito tra gli
stati membri. Giacché si regolamenterebbero solamente i valori aggregati (indici delle
prestazioni sociali), l’autonomia degli stati membri dell’UE, nell’ambito del principio di
sussidiarietà, rimarrebbe intatta nella ripartizione delle spese sociali tra le diverse
prestazioni (pensioni, malattia, disoccupazione, sostegno alle famiglie).

L’introduzione di un simile concetto di regolamentazione porrebbe fine al regime neo-liberista
degli stati concorrenti nell’ambito della politica sociale. Una politica economica e sociale
convergente rientrerebbe perfettamente nel patto di stabilità sociale. Si potrebbero così
impedire a priori le strategie di dumping, così come praticate dall’Irlanda e dalla Spagna nella
vecchia UE, e portate avanti dai nuovi stati membri, quali i paesi baltici e la Slovacchia.

{{4. Attivare la politica del mercato del lavoro dell’Unione Europea}}

Per combattere efficacemente la disoccupazione in Europea, occorre in primo luogo e
soprattutto che la politica economica prenda una nuova direzione (cf. sezione 2). Le misure e le
riforme strutturali della politica del mercato del lavoro possono portare frutto unicamente in un
contesto macroeconomico favorevole, che si impegni a superare le attuali debolezze della
crescita. Se vuole migliorare la sua posizione competitiva a livello internazionale, l’Europa deve
puntare sulla qualità e non sulla riduzione dei salari e delle norme sociali. L’Europa deve
riflettere sui suoi punti di forza, vale a dire l’alta qualità dei suoi beni e servizi, una mano
d’opera ben formata e condizioni di lavoro regolamentate e socialmente protette. Pertanto,
bisogna tornare a dare il primo posto ad approcci positivi di un’attiva e preventiva politica del
mercato del lavoro: occorrono misure attive di politica del mercato del lavoro per consentire
l’accesso allo stesso di più persone e combatterne la segmentazione.

Per evitare situazioni “di insicurezza”, sono necessarie iniziative nazionali ed europee
finalizzate a migliorare la situazione contrattuale delle nuove forme di occupazione, per
garantire, in tal modo, l’applicazione alle forme di lavoro atipico delle stesse norme del diritto
del lavoro e delle stesse tutele sociali dei rapporti di lavoro cosiddetti “normali”, evitando così
la crescente emarginazione dovuta all’esclusione dal mercato del lavoro regolare. La tutela a
livello europeo dei rapporti di lavoro atipici e precari è indispensabile per impedire l’ulteriore
erosione degli standard sociali. Naturalmente tutto ciò implica un modello strategico di politica
del mercato del lavoro, centrato sul miglioramento della qualità del lavoro come principale
obiettivo. I mercati del lavoro vanno regolati in modo da combattere le situazioni di precarietà
e povertà, attraverso il miglioramento delle disposizioni europee sul part-time, sul lavoro a
tempo determinato, sul contratto di appalto, l’orario di lavoro, la protezione contro il
licenziamento illegittimo, i regolamenti in materia di indennità di disoccupazione, nonché le
misure attive e preventive del mercato del lavoro.

L’occupazione transfrontaliera e il distacco dei lavoratori continuano a crescere e si stanno
progressivamente trasformando in un settore chiave della politica sociale europea. L’aumento
della migrazione, la libera circolazione della mano d’opera e l’illimitata libertà di prestare
servizi diventano una minaccia per il modello sociale europeo, se gli interessi e i diritti acquisiti
dei lavoratori dipendenti non vengono messi al centro della politica europea ma rimangono alla
mercé di una politica neoliberista del mercato interno. A tale riguardo, gli stati membri sono
chiamati a migliorare le condizioni di lavoro standard, conformemente ai loro contratti
nazionali, e a porre limiti alla loro elusione mediante forme atipiche di occupazione.

LA FSESP chiede pertanto:
-* Un miglioramento della direttiva UE sull’orario di lavoro, che non metta in discussione la
giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea sul servizio di permanenza (=orario di
lavoro), che limiti l’estensione del tempo di riferimento ad eccezioni contrattuali, metta
fine alla riduzione del limite massimo dell’orario di lavoro settimanale, attraverso un
accordo individuale “volontario” (il cosiddetto opt-out individuale) e preveda il diritto di
modificare l’orario di lavoro per ragioni familiari.
-* La revisione della direttiva europea sul distacco dei lavoratori, al fine di applicare il
principio del luogo di lavoro in modo coerente e senza lasciare spazio a dubbio alcuno. Si
tratta dunque di stabilire legalmente parità di condizioni di lavoro e di retribuzione per
uguale lavoro nello stesso posto.

{{5. Rafforzare i diritti sociali fondamentali rispetto alle libertà del mercato}}

I lunghi anni di discussione sulla costituzione europea e il fallimento del trattato di Lisbona,
avrebbero dovuto offrire l’occasione per superare il distacco dell’ordine economico da quello
sociale. Invece, si è stabilito un sistema duale con, da un lato, la costituzione economica
europea neoliberista e, dall’altro, le tradizioni degli stati sociali e i meccanismi di tutela della
politica sociale dei diversi paesi membri. Tuttavia, questo sistema duale non è equilibrato. Il suo
squilibrio deriva dal fatto che le cosiddette libertà fondamentali, vale a dire la “libera”
circolazione di beni, la “libertà di stabilimento”, la “libera” prestazione di servizi e la “libera”
circolazione di capitali”, ossia le libertà di mercato, sono predominanti. Se il trattato di Lisbona
dovesse entrare in vigore così com’è, senza modifiche, questa situazione diventerebbe pressoché
irreversibile.

La patetica scelta terminologica (“libertà fondamentali”) vuole nascondere il fatto che non si
tratta di diritti civili e libertà secondo la tradizione dei valori fondamentali europei, ma
semplicemente di norme apertamente contrattuali e vincolanti per la de-regolamentazione del mercato europeo. La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea serve a prima vista
semplicemente a rimediare a questa lacuna. In virtù delle disposizioni generali dell’articolo 53,
che pongono le cosiddette libertà fondamentali, cioè quelle del mercato, sullo stesso piano dei
diritti umani, le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali vengono modificate in funzione
delle condizioni del mercato, e con ciò svalutate.

La Corte di Giustizia Europea agisce da vera pioniera in materia di estensione pressoché
illimitata e ricorrente delle cosiddette libertà fondamentali dell’UE, a discapito delle principali
garanzie del diritto costituzionale nazionale, almeno dall’allargamento UE del 2004 con il
conseguente cambiamento di personale dei suoi tribunali. La sua giurisprudenza tende a porre
direttamente in concorrenza i diversi livelli regolamentari e con ciò a forzare la competizione
tra le norme.

Anche le sentenze della Corte di Giustizia Europea del 2007 nei casi Viking e Laval danno
sistematicamente la priorità alla libertà di stabilimento (Viking) e alla libera prestazione di
servizi (Laval), piuttosto che al diritto di sciopero e all’autonomia della contrattazione
collettiva, senza ciò trovi giustificazione nel Trattato CE.

Secondo la Corte di Giustizia Europea, gli stati membri dell’UE possono limitare la libera
prestazione di servizi e la libertà di stabilimento soltanto se ciò si rende necessario “per ragioni
imperiose di interesse generale”. La Corte Europea esamina ogni sciopero e ogni contratto
collettivo, a discapito dei rispettivi stati membri, in virtù della sua preconcetta idea di quel che
costituisce una ragione realmente “imperiosa”. A tale riguardo, il contenuto sociale dei
contratti collettivi può non avere un peso decisivo, dal momento che gli interessi dei lavoratori
non coincide con l’interesse generale. Senza che il Trattato le assegni tale facoltà, la Corte
decide quali siano le ragioni imperiose di interesse generale che rientrano sotto la sua
responsabilità. A questo proposito, il diritto di sciopero e l’autonomia della contrattazione
collettiva non sono protetti in sé, ma unicamente invocati nell’esame delle “ragioni imperiose di
interesse generale”, accanto a numerose altre considerazioni, col risultato che se ne diminuisce
il valore. Nel caso Viking la Corte di Giustizia europea va oltre e arriva perfino a sostenere che la
dignità umana dovrebbe essere messa sullo stesso piano delle libertà di mercato.

Nel caso Ruffert (2008), la legislazione tedesca sul rispetto dei contratti collettivi, è stata
considerata dalla Corte di Giustizia europea, in marcato contrasto con l’opinione dell’avvocato
generale dello stesso tribunale, come una violazione della direttiva sul distacco dei lavoratori,
dal momento che restringe la libera prestazione di servizi.

Nella stessa direzione va la decisione della Corte contro la legge lussemburghese sulla sicurezza
e la salute sul posto di lavoro. Con un’analisi socio-politica unilaterale di tutte le potenziali
obiezioni ai regolamenti della legge sul distacco dei lavoratori del Lussemburgo, la Corte
europea mostra di interpretare la direttiva sui servizi in modo estremamente ampio. La Corte
ritorna all’epoca Bolkestein e, nella sua interpretazione della direttiva sul distacco dei
lavoratori, ignora i miglioramenti che il Parlamento europeo ha operato rispetto alla proposta
originaria di direttiva sui servizi elaborata dalla Commissione.

Con i casi Viking, Laval, Rüfffert e Lussemburgo, la Corte, senza esserne legittimata dal diritto
europeo, vuole porre limiti al diritto di sciopero, all’autonomia della contrattazione collettiva, e
alle norme di protezione sociale degli stessi stati membri, là dove questi sono prioritari nella
costituzione nazionale e danno luogo a tutele. Dove invece questi diritti e meccanismi di tutela
sono comunque finora solo scarsamente cresciuti, cioè in molti paesi dell’Europa centrale e
orientale, la Corte incoraggia i rispettivi governi a portare avanti loro politiche anti-sindacali.
La FSESP critica il fatto che la Corte, che è certamente l’organo dell’UE con la minore
legittimità democratica e la maggiore mancanza di trasparenza, si proclami essa stessa pioniera
e organo esecutore di un sistema economico e normativo neoliberista, largamente sottratto al controllo dei diritti fondamentali, che afferma il primato delle libertà del mercato
sull’occupazione e la regolamentazione sociale degli stati membri e perfino sulla dignità umana,
che deve allinearsi alle libertà del mercato. L’ultima giurisprudenza della Corte mette a dura
prova la lealtà dei lavoratori nel cuore dell’Europa. Di conseguenza, è opportuno mettere fine a
tali sentenze. Il rispetto dei contratti collettivi deve rimanere un pilastro socio-politico della
legislazione degli appalti pubblici.

L’8° Congresso della FSESP reclama che:

-* Gli strumenti giuridici socio-politici, quali la direttiva sul distacco dei lavoratori e i diritti
(sociali) fondamentali, come il diritto di sciopero, non siano subordinati alle cosiddette
libertà fondamentali del mercato interno. Le tensioni tra le “libertà fondamentali” e i
diritti sociali fondamentali devono essere risolte a favore di questi ultimi. I diritti sociali
fondamentali devono essere prioritari rispetto alle regole della concorrenza e alle libertà
fondamentali del mercato interno. Ciò deve essere reso giuridicamente vincolante
attraverso adattamenti del diritto UE direttamente applicabile (diritto primario). Nei
trattati va altresì stabilito che l’UE non serve solo al progresso economico ma anche a
quello sociale.
-* A tale riguardo, deve essere applicato il principio «del salario uguale per un lavoro
uguale, sullo stesso luogo di lavoro». La direttiva sul distacco dei lavoratori deve essere
modificata in modo che le condizioni di lavoro e di salario dei lavoratori distaccati – con
l’applicazione del principio di preferenza - siano totalmente e senza alcun dubbio
conformi al diritto del lavoro e ai contratti collettivi del luogo in cui si lavora.
-* Va garantita un’efficace cooperazione transnazionale per controllare in modo altrettanto
efficace le condizioni di salario e di lavoro dei lavoratori distaccati (tutela del servizio e
sua applicazione all’estero). Adeguati controlli interni non devono essere ostacolati da
disposizioni giuridiche europee poco rigide.
-* La FSESP invita il Consiglio dell’UE a prendere, in un prossimo futuro, posizione a favore
di questi principi. Il movimento sindacale europeo non può accettare e non accetterà il
proseguire di una politica d’integrazione europea all’insegna del neoliberismo, vale a
dire una politica che minaccia profondamente gli interessi di milioni di lavoratori e
lavoratrici europee. In occasione dei futuri referendum sui nuovi strumenti giuridici
dell’Unione, i sindacati europei si riservano pertanto il diritto di esprimere il loro voto
contrario e di bloccare ogni ulteriore processo di unificazione fino a quando i diritti
sociali fondamentali non avranno la priorità sulle “libertà fondamentali” del mercato
nell’ambito del diritto primario comunitario.

{{6. LA FSESP non auspica “meno Europa”, ma vuole più Europa e sempre più sociale!}}

L’analisi della costituzione economica e sociale dell’UE e della giurisprudenza della Corte di
giustizia europea ha dimostrato che l’attuale configurazione dell’unione spiana la strada a
occasionali violazioni degli interessi dei lavoratori in numerosi ambiti. La perdita di interesse
per l’EU da parte della popolazione va di pari passo con la perdita di fiducia dei lavoratori
dipendenti nella capacità dell’Unione di garantire loro tutele sociali. Questa sfiducia non
dipende da una carenza di informazioni sull’integrazione europea, né dai residui di un
sentimento nazionalistico, ma piuttosto dall’esperienza personale, sin base alla quale l’UE, nel
suo approccio attuale, favorisce il dumping salariale e sociale e non è più in grado di garantire la
piena occupazione.

LA FSESP critica il tentativo di attribuire priorità costituzionale, e di conseguenza quasi
carattere di eternità, alla politica economica e sociale neoliberista, sotto forma dei trattati
europei. Tali trattati vanno ben al di là della portata politica delle costituzioni nazionali degli
stati membri. Nessuno stato dell’UE possiede una costituzione in cui sia stabilito l’orientamento
della politica monetaria e fiscale. Nessuno stato si fonda su un sistema di federalismo competitivo riconosciuto nel diritto costituzionale. Le decisioni unilaterali dei trattati UE
contravvengono alle disposizioni e alle tutele socio-politiche contenute nelle Costituzioni di
molti stati membri. Il sistema degli stati concorrenti, con le sue ripercussioni negative sulle
politiche salariali, sociali e fiscali, diventerà quasi immutabile con il trattato di Lisbona. A
questo la FSESP si opporrà.

Il crescente scetticismo nei riguardi dell’UE dimostra come le conseguenze della sua costituzione
economica e sociale suscitino un crescente malessere tra i cittadini. Dopo il fallimento dei
referendum in Francia, nei Paesi Bassi e in Irlanda, l’UE dovrebbe finalmente abbandonare la
politica del “ripetere sempre la stessa musica”, senza rimettersi in discussione e condurre un
dibattito sociale a livello europeo sul futuro sociale dell’unione. Ciò dovrebbe portare a un
nuovo trattato dell’UE, la cui essenza, in termini di contenuto della politica sociale, per la quale
i governi democraticamente eletti degli stati membri sono responsabili, non si negozi con
risultati preconcetti. È opportuno eliminare gli ostacoli alla politica monetaria e fiscale e fare
posto a una politica orientata verso la crescita e l’occupazione. Si dovranno proibire le pratiche
di dumping nelle politiche salariali, sociali e fiscali, mediante regolamenti comunitari.

La nostra risposta alla dinamica inerente a un sistema di stati nazionali competitivi non può
consistere nella formula “più stato nazionale, meno Europa”. Al contrario, abbiamo bisogno di
più Europa, ma di un’Europa diversa. A tal fine serve, però, un nuovo sistema normativo per la
politica economica e sociale in Europa. In altre parole, una politica che offra un futuro al
modello sociale alternativo. D’altra parte, attenersi rigidamente al neoliberismo, mette a rischio
il processo d’integrazione europea e contribuisce alla rinascita dei nazionalismi e del
protezionismo. Se s’incoraggia il dumping salariale, sociale e fiscale, non c’è da stupirsi se i
popoli d’Europa si guardano con crescente sfiducia invece di tendersi la mano. Un modello
sociale europeo creerebbe ponti sulle attuali differenze. Solamente attraverso la realizzazione
di un’Europa democratica e sociale si potrà scongiurare il pericolo della crescente alienazione
dei cittadini rispetto all’idea dell’Europa.